L’esperienza di servizio dei nostri giovani alla Casa della Carità di Lecco

Non è facile raccontare cosa succede quando un gruppo di ragazzi e ragazze decide di mettersi “sul campo” per vivere la carità non come parola, ma come gesto, relazione, presenza. Il gruppo di giovanissimi – tutti minorenni – che, insieme all’operatrice della Caritas diocesana, Orietta Bacci, ho guidato, dal 7 al 13 agosto alla Casa della Carità di Lecco, ha vissuto tutto questo, condividendo una settimana intensa che ha lasciato, in tutti noi, il segno.
Alcuni ragazzi sono partiti con curiosità, qualcuno con timore, altri con l’idea di “fare qualcosa di utile”. Ma fin dai primi momenti, il gruppo si è ritrovato immerso in una realtà viva, accogliente, sorprendente. La Casa della Carità non è solo un luogo fisico – moderno, colorato, pieno di spazi comuni e attività – ma soprattutto un luogo umano, dove ogni persona è accolta, ascoltata, rispettata. “Pensavo di trovare un ambiente più spartano, invece ho scoperto una casa vera, dove ogni ospite ha il suo spazio e viene trattato con dignità”, ha raccontato uno dei ragazzi… Ed è così che il tutto è stato Oltre le aspettative.  

Le attività della settimana sono state diverse: servizio in mensa, laboratori, visite agli ospiti, momenti di riflessione. Senza dubbio, però, quello che ha colpito di più sono stati gli incontri. Con persone con disabilità, con storie difficili, con volti che dietro l’apparenza nascondono mondi interi. “Ho capito che, dietro ogni persona, c’è molto più di quello che si vede. E che anche un piccolo gesto può fare la differenza”, ha scritto una ragazza.
Ci sono stati momenti di difficoltà, specialmente nel relazionarsi con chi era più chiuso o riservato. Ma proprio in quei momenti i nostri giovani hanno imparato ad ascoltare, ad aspettare, a rispettare i tempi dell’altro. E hanno capito che gli incontri possono trasformarci.

Il progetto “Giovani sul campo”, promosso dalla nostra Caritas diocesana, non è solo un progetto educativo. È un’esperienza formativa, che ha lasciato nei ragazzi parole nuove: consapevolezza, gratitudine, cambiamento. Alcuni hanno detto di aver lasciato “un pezzo di cuore” in quella casa; altri di essere tornati con uno sguardo diverso sul mondo. E tutti, nessuno escluso, hanno capito che la carità non è solo dare: è stare, condividere, mettersi in gioco.

Grazie a chi ha reso possibile questa esperienza: ai volontari della Casa, agli educatori, alle famiglie, alla comunità. E grazie ai ragazzi, che hanno dimostrato che il Vangelo si può vivere anche a diciassette anni, con le mani sporche di mensa e il cuore pieno di storie. Che questa esperienza sia solo l’inizio. Perché la carità, quando si vive davvero, non finisce mai.

Don Udoji Onyekweli
Vice direttore della Caritas della Diocesi di San Miniato

Matilde: La Casa della Carità è la Casa di tutti

Non sapevo bene cosa aspettarmi quando mi sono iscritta al viaggio di Lecco della Caritas, però sapevo che “volevo fare qualcosa di utile” e non pensavo assolutamente che quest’esperienza mi avrebbe toccato così nel profondo.
Dal 7 al 13 agosto 2025 sono andata alla Casa della Carità, una struttura di accoglienza che offre servizi diurni e notturni, come mensa, distribuzione di beni di prima necessità e un centro di ascolto, a persone in difficoltà e bisognose di assistenza. La casa era moderna e molto colorata.

Appena arrivati Matteo e Fabio, due volontari di Caritas Lecco, ci hanno accolto calorosamente e ci hanno portato nelle nostre stanze, ci siamo sistemati e subito siamo andati a fare la nostra prima attività. Io pensavo fosse un’attività normale di conoscenza all’interno della quale ci avrebbero chiesto “perché si era lì”, “cosa ci si aspettasse dall’esperienza”… Invece ci siamo messi in cerchio con al centro una valigia piena di sacchetti numerati. Fabio ha fatto pescare a ognuno di noi un numero che corrispondeva a un sacchetto all’interno della valigia. Dentro a ogni sacchetto c’erano degli abiti e un foglio con una storia, Si trattava di vestiti di ospiti che erano passati dalla casa: noi dovevamo indossarli e entrare letteralmente nei panni della persona della storia, dicendo le stesse battute e avendo gli stessi atteggiamenti che avrebbero avuto loro… Poi ci hanno fatto accomodare in due tavoli, ci hanno iniziato a portare del cibo finto e noi dovevamo parlare tra noi recitando la nostra parte. È stata un’attività particolare, inaspettata ma anche molto formativa che mi ha preparato molto alla cena imminente: tutti i pranzi e le cene li abbiamo condivisi con gli ospiti della casa.

Durante il pasto sono riuscita a creare qualche dialogo, parlando della giornata trascorsa in viaggio dalla Toscana… Le persone che erano al mio tavolo sembravano molto interessate ai miei racconti, mi hanno parlato anche dei loro viaggi in Toscana, della Torre di Pisa, del carnevale di viareggio e mi hanno fatto notare come la nostra parlata fosse strana per loro. La sera siamo stati in una sala piena di giochi: da tavola, carte, biliardino, tavolo da ping pong… con lo scopo di poter passare delle ore spensierate insieme. L’indomani, invece, ci hanno diviso in gruppi da tre e, dopo che ci hanno dato una mappa di Lecco con delle tappe da raggiungere, siamo partiti. Ogni tappa era un luogo speciale della città per alcuni ospiti: un centro commerciale, una ex casa, una stazione, ma quella che mi ha colpito di più è stata un negozio di kebabbaro… Alì la prima volta che ha sentito il profumo del pane chapati in Italia era proprio davanti a questo ristorante. Lo ha riportato in Pakistan, a quando sua madre cucinava al mattino presto e tutta la casa si riempiva di quell’odore così familiare. Mi ha colpito molto come un semplice pasto può far riaffiorare ricordi così belli; il nostro cervello ricorda attraverso i sensi: un odore, un suono, un gusto possono portare in un altro tempo o in un altro luogo.

La mia esperienza preferita, però, è stata la visita all’associazione La nostra Famiglia che si dedica alla cura e alla riabilitazione delle persone con disabilità di età adulta. Non conoscevo questa associazione e non sapevo come comportarmi in un contesto del genere, ma poi è arrivata Carla e ci ha spiegato e raccontato. La casa era stile anni Ottanta, però era tenuta molto bene, c’erano laboratori, camere, cucina e sala da pranzo. Gli ospiti della casa ci stavano aspettando in una stanza, avevano preparato due filmati per noi per spiegarci le loro giornate, erano tutti e tutte felici di vederci e di raccontare la loro storia. Il covid ha complicato molto la situazione all’interno della struttura, perché gli ospiti erano completamente soli e senza nessun contatto dall’esterno, hanno dovuto tenere le mascherine fino all’anno scorso per ragioni di sicurezza. Durante il lock down lo psicologo della casa ha avuto l’idea di scrivere un libro: “La compagnia del bosco”, nel    quale ognuno degli ospiti si è immedesimato in un animale che viveva nel bosco. La vicenda racconta della minaccia della città vicina al bosco di voler espandersi e di voler prendere una parate della casa degli animali, che, per difendersi, devono trovare una soluzione: alcuni di loro pensano di andare a parlare con il sindaco, altri di uccidere la gente del villaggio e altri ancora di patteggiare con gli uomini. La storia che mi ha colpito di più è stata quella di un ragazzo che si immaginava come un orso a cui piaceva andare in giro a cercare cibo; gli sarebbe piaciuto vivere con il branco dei cerbiatti, ma loro avevano paura che li potesse mangiare, lui allora mangiava solo verdure e sperava un giorno di ritrovare i suoi genitori. Gli uomini però lo catturano, lui riuscì, comunque, a scappare e provò ad avvicinarsi agli altri animali, ma non troppo, perché  quegli animali avevano paura di lui… Questo racconto mi ha fatto capire come si sentono, a volte, queste persone. “Noi non vi mordiamo, non vi facciamo del male e non vi attacchiamo nessuna malattia, siamo solo persone più fragili, con dei bisogni particolari ma vogliamo solo essere amate”, ci ha detto una ragazza, che aggiunto:”Quando ci vedete per strada, non abbassate lo sguardo, ci basta anche solo un sorriso”.

Questo viaggio mi ha fatto capire, soprattutto, il vero significato di due parole: bisogno e gentilezza. Noi pensiamo che il bisogno indichi solo ciò di cui necessitiamo, ma in realtà è una parola composta da bi (due) e sogno: quindi è attraverso i sogni che possiamo cogliere i movimenti interni che ci spingono a esprimere la nostra unicità e la nostra personalità e che ci aiutano a far conoscere chi siamo in un dato momento. Nella vita basta sognare e, così, troveremo il nostro bisogno anche se è ben nascosto. La gentilezza, invece, è una forza silenziosa che trasforma i rapporti e costruisce legami. Non è debolezza, ma scelta consapevole di rispetto, cura e attenzione. Essere gentili significa riconoscere l’altro come importante, anche con piccoli gesti: uno sguardo, una parola detta con calma, un ascolto paziente. Da questo viaggio mi porto con me l’accoglienza, il sapere e la gentilezza di chi c’è e c’è sempre stato per aiutare.

Matilde Mazzantini


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